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Salvatore MUZZI

Il servizio forestale attraverso i secoli

I PUNTATA - Gennaio 1975

Se venisse posto il quesito per conoscere da quanto tempo e perché esistono istituzioni atte ad imporre il rispetto delle leggi, l’uomo della strada probabilmente sarebbe portato a rispondere che tali istituzioni si sono rese necessarie con i tempi moderni, perché oggi sembra che l’umanità sia più cattiva e si dimostri meno ossequiente alle leggi di quella delle epoche trascorse. Infatti, il grosso pubblico è quasi sempre incline a giudicare l’attuale società peggiore di quella del passato e arriva talvolta a ritenere che molti ritrovati della scienza hanno, in certo modo, arrecato più male che bene, perché di essi hanno tratto maggiori vantaggi i malvagi, per i loro tristi fini, che i buoni, per scopi nobili e generosi. Di conseguenza, i vari reggitori dell’odierno consorzio umano han­no dovuto istituire organismi specializzati per difendere e salvaguardare i diritti e l’incolumità dei bravi e pacifici cittadini, e della società in genere, dalle sopraffazioni e dalla disonestà di una minoranza irrequieta.

Qualche volta, nella filosofia della strada vi è un fondamento di verità. Lo Stato moderno ha ritenuto necessario, anche in conseguenza della densità demografica, che, attraverso i secoli, è andata sempre aumentando, di potenziare numericamente e tecnicamente quegli organismi a cui è affidato il compito di far rispettare le leggi da parte di chi tende ad escogitare ogni mezzo per eluderle a detrimento della collettività.

Se è vero, come è vero, che il diritto appartiene alla classe delle scienze sociali o morali, di quelle scienze cioè che considerano l’uomo nelle sue azioni, e che perciò sono portate a ricercare le forze e le leggi che governano le azioni umane, i soggetti del diritto stesso non possono essere che due: l’uomo e la società, l’individuo e l’aggregazione, e in definitiva i rapporti tra uomo e uomo, tra uomo e società, tra società e società. Ma il diritto, cioè il complesso delle leggi, deve trovare tale applicazione e perciò lo Stato è tenuto ad assicurarne l’osservanza, con i mezzi, a sua disposizione, intesi a prevenire e a reprimere gli atti che violano le leggi stesse. Se oggi questi mezzi hanno raggiunto, in confronto al passato, una tecnica più perfezionata, sarebbe errato ritenere però che siano un ritrovato dei nostri tempi.

Per non risalire troppo indietro, ai tempi delle civiltà orientali, basterà accennare al fatto che organi preposti al rispetto delle leggi non soltanto erano riconosciuti dagli ordinamenti della Roma dei periodi regio e repubblicano, ma avevano una tale efficienza specialmente negli ultimi tempi della Repubblica da poterli considerare, in rapporto all’epoca, come gli attuali similari nei riguardi dell’odierna società. Ogni pubblico ufficio, nella antica Roma, aveva attribuzioni ben determinate e disponeva di un adeguato numero di funzionari e dì agenti per la esecuzione dei suoi provvedimenti; in tal modo, non soltanto l’ordine e la sicurezza pubblica erano mantenuti, ma ogni legge dello Stato era osservata e fatta osservare.

La denominazione di Prefetto, con cui oggi viene chiamato l’alto funzionario che è capo di ciascuna provincia, in cui è ripartito amministrativamente il territorio nazionale, e vi rappresenta il potere esecutivo dello Stato, trae origine da quella di « Praefectus », che designava una ventina di magistrature diverse (civili, militari e religiose), di cui le più importanti facevano capo al “Praefectus urbis “, al “ Praefectus praetorio “ e al “ Praefectus classis “. Il “ Praefectus urbis” era una carica che risaliva all’epoca dei re (urbis custos). Sotto la Repubblica sostituiva i Consoli quando questi si allontanavano da Roma, presiedeva il Senato, amministrava la giustizia, ecc. Durante il periodo imperiale era capo della polizia, provvedeva all’ordine interno ed aveva giurisdizione, oltre che su Roma, su un vasto territorio di 148 chilometri di raggio sulla terra e sul mare intorno all’Urbe. Gli “ Aediles “, istituiti al tempo della Repubblica, esercitavano la sorveglianza, oltre che sui templi e sugli edifici pubblici, sulle strade, sui mercati, sulla confezione del pane e delle vettovaglie, sui pesi e misure, invigilavano sulle terme, sui giuochi, sulle taverne, sugli stranieri, sulla sanità pubblica, ecc. Per tale sorveglianza, Roma era stata ripartita in 14 regioni e in 265 rioni; ad ogni regione era preposto un edile, un tribuno o un pretore e ad ogni rione era un “curator “ con quattro funzionari dipendenti (“procuratores”, “vico-magistri”, “magistri vici”). Ognuno di questi funzionari aveva a sua disposizione un agente (“minister” o “denunciator”), mentre il « curator » disponeva di due littori. A tutti questi funzionari erano attribuite funzioni di polizia, come pure ai Censori.

Nell’anno 36 a.C. furono istituiti i «vigiles» che, specialmente di notte, assicuravano il cittadino contro i malfattori. I vigili in Roma ammontavano a circa 4200; essi venivano reclutati tra i legionari e costituivano sette coorti di 600 uomini ciascuna, comandate da tribuni. Oltre a funzioni di sicurezza pubblica, avevano anche quelle che oggi vengono disimpegnate dai vigili del fuoco. Al tempo di Augusto, le sette coorti erano comandate dal « Praefectus vigilum ». Ma i veri agenti di polizia, i depositari della legge pubblica erano i « lictores », gli « apparitores »e i « viatores » (al servizio dei magistrati) e i « praecones » (banditori che avevano il compito di chiamare il popolo ai comizi).

Da questa succinta menzione, che trova riferimento in innumerevoli testi storici, appare evidente che se Roma fu - come universalmente riconosciuto - la culla del diritto, essa aveva anche un concetto ben definito dello Stato e della sua organizzazione sociale e politica, da cui derivava la ‘vitalità delle sue leggi, al cui rispetto erano chiamati tutti i suoi cittadini. L’imperio e la solennità della legge fu uno dei più grandi fattori della civiltà romana, perché da esso lo Stato ricavava l’essenza di quella energia e di quella potenza che hanno improntato di sé tutta la storia del mondo mediterraneo ed occidentale.

Queste caratteristiche, che furono la forza morale di Roma, trassero la loro origine sopra tutto dalla profonda consapevolezza, da parte di quelle classi dirigenti, della necessità di sottoporsi ad un ordine, che dominasse ogni aspetto dell’esistenza: ordine nella vita, nelle manifestazioni esteriori, nell’attività dell’individuo e della collettività come in quella dello Stato. Per questo, la potenza morale delle forze dell’ordine, nello Stato romano, era di gran lunga superiore a quella materiale.


EPOCA ROMANA

Mentre, come si è accennato, in Roma e negli altri agglomerati urbani l’efficienza degli strumenti preposti a far rispettare le leggi dello Stato, e con esse l’ordine pubblico, era rispondente alle esigenze di quei tempi, per i « villici », per le contrade agresti e particolarmente per i boschi esisteva qualche cosa analoga, atta a tutelare i diritti altrui, ad eliminare o colpire soprusi ed abusi, ad assicurare il rispetto della legge e, se del caso, ad eseguire l’ordine del magistrato?

Occorre premettere che gli alberi e i boschi generavano nell’animo dell’antico popolo romano - come in quello di altri popoli - un particolare e mitico rispetto, dovuto essenzialmente al culto pagano(1) e alla tradizione, ereditata dai popoli primitivi e derivante dal fatto che i principali avvenimenti del mondo di allora si svolgevano all’ombra di grossi alberi per propiziarne le divinità da essi rappresentate. Sembra che lo stesso nome latino “ lex” (legge) dapprima volesse significare la raccolta di ghiande nelle selve(2). Per queste ragioni e per l’importanza che i prodotti del bosco avevano allora, più di ora, Plinio il Vecchio, l’autore della voluminosa « Naturalis Historiae », ebbe a scrivere nel proemio del XII volume della sua opera: «Summum munus homini datum arbores silvaeque intelligebantur ».

Al sorgere di Roma, non esisteva una proprietà terriera secondo il significato odierno. Mentre presso taluni popoli già evoluti, come quelli orientali, esisteva la proprietà fondiaria, questa era ancora misconosciuta sulle rive del Tevere; si potevano ovunque condurre al pascolo gli armenti, le necessità di legna e legnami potevano essere soddisfatte presso qualsiasi bosco o pianta, la venagione si poteva esercitare con il più ampio mandato. Ma, dopo che sul Palatino fu tracciato il solco quadrato, dopo che il primo nucleo di popolazione vi prese stabile dimora e cominciò a coltivare la terra, la propria terra, allora si determinò anche in quegli uomini primitivi il senso della proprietà, la difesa della proprietà. Vennero poi le conquiste e la divisione delle terre occupate e si giunse, sotto lo stesso periodo regio, a distinguere il patrimonio terriero coltivato, e diviso tra i cittadini, da quello incolto e indiviso: il primo era chiamato “ager romanus” (ancora oggi ricordato dalle parole Agro romano), il secondo “ager publicus”. I terreni boscati facevano parte dell’“ager publicus” e servivano agli usi comuni o erano usufruiti a profitto della “res publica” All’epoca repubblicana, i boschi furono assegnati dallo Stato a privati cittadini e, in molti casi, ne era delegato il godimento alle città.

Nell’antica Roma, i primi ad esercitare direttamente e indirettamente la custodia dei boschi sacri - furono taluni collegi sacerdotali e in particolare modo quello dei «Fratres Arvales»(3): Quest’ordine religioso era preposto alla venerazione delle divinità naturali (Diana, Cerere, Giano, ecc.), ma sopra tutto di Marte, dio della forza vegetativa(4), della fecondazione e della primavera(5). Si è detto che gli Arvali e altri ordini sacerdotali esercitavano la tutela dei boschi sacri direttamente e indirettamente; la loro azione era dovuta al fatto materiale della loro sorveglianza quotidiana in dipendenza dei riti sacri che vi dovevano svolgere. I boschi sacri erano coltivati dagli stessi sacerdoti, che avevano l’obbligo di sostituire le piante vecchie, o abbattute dalle intemperie, e di vigilare su tutta la superficie occupata dal bosco. Qualsiasi azione commessa ai danni di un bosco sacro era ritenuta sacrilega e pertanto punibile anche con la pena capitale. Verso la fine del periodo regio, vi era si grande dovizia di boschi sacri (il bosco sacro era chiamato « lucus »)(6), che essi erano profusi ovunque, sui colli, nelle pianure, lungo le spiagge e fino ai piedi delle alte montagne(7).

L’azione indiretta esercitata dai detti ordini sacerdotali per la difesa dei boschi era dovuta al potere morale dello stesso culto che officiavano e che rappresentava all’opinione, alla credenza del popolo il carattere sacro, e talvolta soprannaturale, dei maggiori rappresentanti del mondo vegetale cioè degli alberi, e delle loro consociazionj, cioè dei boschi. Peraltro, come avverte anche il Trifone, l’abbondanza dei boschi e la loro scarsa utilizzazione non rendeva necessaria una particolare azione di sorveglianza.

Ma, questa situazione non perdurò e via via che la civiltà, il progresso, le conquiste territoriali e sociali, l’incremento demografico consolidarono e svilupparono il piccolo Stato romano, mutarono anche le condizioni di quel patrimonio naturale costituito dai boschi.

Come già accennato, nel primo periodo regio i boschi facevano parte “dell’ager publicus”; al tempo di ANEO Marzio, quarto re, furono inclusi nel patrimonio della «res publica» nell’intento di dare ad essi un certo carattere protettivo, facendoli considerare come una ricchezza dell’erario, destinato ai fini di utilità generale. Ciò avvenne anche perché ‘Anco Marzio si dedicò in particolare modo all’incremento dei traffici e degli scambi commerciali, fondò il porto di Ostia e diede a Roma una flottiglia di navi per esercitare il cabotaggio con i centri marinari della costa tirrenjca a nord e a sud del Lazio. Questa attività commerciali e la necessità di legnami speciali per la costruzione del naviglio, fecero apprezzare al predetto monarca l’importanza della produzione boschiva e quindi dei boschi. E resta ormai acquisito il fatto che Anco Marzio fu il primo ad istituire, in Italia, una apposita magistratura per la sorveglianza e l’utilizzazione delle selve idonee alle costruzioni navali; successivamente, provvide ad incamerare i migliori boschi(8), creando un demanio forestale regio, su cui estese tale sorveglianza.

Quando cadde l’istituzione regia e fu instaurato il regime repubblicano, lo Stato romano, dopo annose lotte tra le due classi sociali dell’epoca, trovò un certo equilibrio nelle istituzioni che subentrarono e che furono consacrate attraverso nuove magistrature. Durante queste lotte, fu rovesciato il governo dei Decemviri, ma rimase perenne il primo monumento dell’alta sapienza romana, nel campo del Diritto pubblico e privato: le Leggi delle XII tavole, compilate dagli stessi Decemviri. Era il primo codice romano, scritto su 12 tavole di bronzo esposte nel Foro, in sostituzione delle leggi tramandate a voce da generazione a generazione.

In questo primitivo codice si trovavano, come attesta il Trifone « le disposizioni che potrebbero ritenersi pertinenti al diritto forestale »; disposizioni che, tra l’altro, prevedevano pene rigorose, per furti di piante, di legnami, per mutilazioni alla ramatura degli alberi, ecc. Per ogni albero reciso a danno altrui era prevista una ammenda di 25 libbre di rame (che corrispondevano al valore di 25 pecore).

Successivamente, come può rilevarsi dal Digesto e dal Codice Giustiniano, nuove disposizioni legislative via via subentrarono, in materia silvana, nei periodi repubblicano e imperiale e nuove, severe pene erano previste per i vari reati forestali, per incendi dolosi, per pascolo abusivo, per abigeato, ecc. In tali periodi di tempo, per far rispettare gli accennati provvedimenti legislativi e per far scontare le pene decretate dai magistrati, ovviamente non era più sufficiente l‘azione, diretta e indiretta, degli Arvali, degli Auguri e di altri collegi sacerdotali.

Ecco quindi affacciarsi la necessità di istituire servizi di sorveglianza e custodia boschiva sia da parte dello Stato che dei privati proprietari. Gli uomini incaricati di questo speciale servizio furono chiamati «Saltuarii» oppure «Silvarum custodes»(9), che erano, a seconda dei casi, custodi, guardie boschive o amministratori di singoli boschi. Essi erano coadiuvati dai “Saltuarii limitanei”, destinati alla sorveglianza dei confini delle selve. La denominazione di «Saltuarius» derivò dalla parola «saltus», con cui primieramente venivano chiamati quei terreni ‘situati in mezzo ai boschi, che non si coltivavano perché erbosi e adatti ai pascoli. Secondo il gramatico Festino “Saltus est ubi silvae et pastiones sunt..”; quindi, successivamente la voce « saltus» fu usata per indicare boschi e pascoli contemporaneamente(10). Livio chiamò «Saltus Citheronis» il M. Citerone, “Saltus germanici” la selva Ercinia e le altre selve della Germania.

Secondo il GRISOLIA(11), i «saltuarii» esercitavano la custodia dei boschi e dei pascoli di proprietà privata e dello Stato, senza provvedere ad alcuna opera di coltura. Al riguardo, anche sul Digesto è accennato alle attribuzioni dei «saltuarii»: «Saltuarium autem Labeo quidem putat eum demum contineri, qui fructuum servandorum gratia paratus sit, eum non qui finium custodiendorum causa; sed Neratius etiam hunc; et hoc jure utimur ut omnes saltuarii contineantur»(12). Inoltre: «Saltuarium autem tuendi et custodiendi fundos magis quam colendi paratum esse»(13). E infine: «Dominus proprietatis etiam invito usufructuario vel usuario fundum vel aedem per saltuarium vel insularium custodire potest »(14).

Peraltro, l’azione del saltuario era limitata al servizio di sorveglianza del bosco o del pascolo cui era addetto, delle utilizzazioni e dell’esercizio del pascolo stesso per tutelarne i diritti di proprietà, perché all’epoca romana la legislazione in materia silvana si restringeva a regolarne soltanto la proprietà. Infatti, nella raccolta Giustinianea non esistono disposizioni riflettenti la parte colturale, la parte tecnica ed economica; e tanto meno nei vari testi romani si trova alcuna disposizione relativa all’utilità pubblica dei boschi, ai divieti di disboscare o dissodare, diretti a salvaguardare la consistenza del suolo, a regolare il corso delle acque, sebbene in alcune leggi si accenni alla necessità di terrazzare i terreni declivi ed eseguirvi piantagioni, e ad assegnare ai fiumi un alveo per dichiararlo luogo bandito (“locus exceptus”), non soggetto a dissodamento, né ad usurpazione(15). In questo modo, non si potevano estirpare gli alberi lungo le rive dei corsi d’acqua e lungo le chine, ovunque erano da temere scoscendimenti e frane.

I Saltuari costituirono dunque la prima categoria di persone addette. All’epoca romana, alla sorveglianza dei boschi e dei pascoli. In un primo tempo, sembra che fossero tratti dai « villici ». conoscitori della zona da sorvegliare e veterani dell’esercito. Praticare, a quei tempi, il mestiere di custode dei boschi, specialmente in certe zone, era impresa piuttosto pericolosa, perché, oltre gli animali selvatici, esse erano il rifugio di «latrones» e di gente della stessa risma, dedita sopra tutto all’abigeato. I saltuari portavano una tunica corta, su cui, nel periodo iemale, indossavano o pelli di animali da loro stessi uccisi, o un mantello (sagum)(16). Al fianco recavano la «securis dolabrata»(17), strumento che era scure da un lato e ascia dall’altro e che, all’occorrenza poteva servire come arma di difesa.

I saltuari facevano parte di una corporazione (collegium) che comprendeva anche i “dendrophores”, tagliatori e conduttori di legname per l’edilizia, i “mensores” (misuratori o agrimensori), i «finitores» (coloro che determinavano i confini), ecc. Era una delle più antiche corporazioni(18), la cui origine risaliva ai tempi patriarcali, e che trasmetteva i mestieri dei suoi “adepti “ da padre in figlio. Questa corporazione aveva come protettore il dio Silvano, che, secondo Virgilio, era anche il dio dei boschi ed era rappresentato recante in mano una piantina di cipresso, fornita di radici, come lo descrive il poeta stesso nelle Georgiche: «... Et tenerarn ah radice ferens, Silvane, cupressum...». Il cipresso era una pianta che presso i Romani godeva di una particolare protezione delle leggi(19), perché molto profittevole; e non poteva esser considerato un buon agronomo colui che non avesse potuto mostrare di aver allevato un bel vivaio di cipressi.

Ma, se i saltuari erano i sorveglianti dei boschi, altre categorie di persone (prescindendo dagli appaltatori dei tagli boschivi e relative maestranze) dedicavano contemporaneamente ai boschi la loro attività. Le varie cariche forestali, all’epoca romana, si ricollegavano alle più alte magistrature di quei tempi. A questo proposito, basterà ricordare che, usciti di carica, i consoli, i proconsoli e i propretori venivano ricompensati, per i servizi resi allo Stato, con l’affidare ad essi il governo delle selve situate nelle province, cioè nei territori al di fuori della penisola. “Provincia ad silvas et colles” era chiamato questo incarico, con cui i ricordati ex magistrati dovevano assicurare la fornitura di determinati assortimenti legnosi all’amministrazione statale, alla flotta e all’esercito, tramite i «quaestores». In pratica, però il patrimonio silvano delle province veniva irrazionalmente sfruttato, per illeciti guadagni, con grave pregiudizio per la sua conservazione. Svetonio, nella sua opera sulla vita degli imperatori romani, attesta che anche a Giulio Cesare, al termine del suo primo consolato, fu affidato il governo di foreste nelle province(20).

Nello Stato romano, prima, e in tutta la penisola, poi, l’amministrazione delle selve statali fu assunta dal Senato, che si avvaleva dell’opera degli edili e dei censori. Alle dipendenze di questi erano dei magistrati minori, quali i segretari (“Scribi”), gli intendenti (“Procuratores saituum”), gli amministratori (“Curatores”), i censori o ufficiali giudiziari (“Viatores”), i banditori (“Praecones”), ecc. Inoltre, vi erano categorie di tecnici, addetti all’allestimento dei legnami occorrenti per la flotta e per l’esercito: «quaestores classici», «architecti», «fabri navales», “praefecti fabrum”, alla lor volta coaudiuvati dai «dendrophores» e dai «centonarii». Questi ultimi avevano l’amministrazione di particolari boschi, - destinati alla produzione di legname di grossa mole; sembra che il loro nome derivasse dalla parola «centum», cioè cento anni dovevano avere le piante da abbattere(21).

Ai boschi destinati alla difesa e consolidamento delle sponde dei corsi d’acqua, erano preposti gli «aediles curules», che disponevano degli «acquae libratores» (architetti idraulici), di «curatores alvei» per la tutela dei boschi situati lungo gli argini e che per legge erano di proprietà demaniale(22). Gli architetti idraulici, con l’ausilio degli amministratori dei boschi rivieraschi, provvedevano alle arginature dei corsi d’acqua, alla costruzione di opere (“Septa”, “vallae”, “substructiones”) per correggere la velocità delle acque e l’erosione delle sponde.

In tutta questa gerarchia di personali, i saltuari dipendevano dai « procuratores saltuum », se addetti ai possessi demaniali; ma, se guardiani privati di un « fundus» o «praedium », essi non avevano altri che il « dominus », da cui erano ingaggiati e retribuiti.

In precedenza, è stato dimostrato che l’azione dei saltuari era quella della vigilanza e della custodia dei boschi e dei pascoli, primieramente soltanto di quelli di proprietà privata, successivamente anche di quelli del demanio. Il Digesto e i testi degli antichi scrittori di cose rustiche non si dilungano in altri particolari sull’attività di questi sorveglianti boschivi e pertanto non esiste una documentazione storica che possa testimoniare sul modo di esercitare questa vigilanza e questa custodia. Secondo il D., come citato, il proprietario del fondo poteva incaricare della sorveglianza il suo saltuario, anche contro il volere dell’usufruttuario o dell’utente(23). Da ciò, discende che il saltuario avesse anche l’incarico di controllare il rispetto delle clausole contrattuali (contenute nelle «leges locationis»), in base alle quali il bosco era stato dato in usufrutto. Tra le clausole erano le seguenti: il conduttore non poteva utilizzare il bosco se non economicamente maturo(24), se bosco ceduo, poteva tagliarlo soltanto all’epoca prescritta, rispettando le piante matricine(25); poteva abbattere alberi morti o deperiti, ma doveva sostituirli con altri giovani e vegeti(26); non poteva introdurre nel bosco animali bovini senza musoliera (“fiscella”)(27) e, nei boschi novelli, qualsiasi animale erbivoro prima che le piante avessero raggiunto la cosi detta età indenne(28). Certamente ai saltuari era affidato anche l’incarico di far rispettare il divieto, per determinati casi, del transito di capre e di armenti, nonché della raccolta di erbe secche e di foglie(29).

Secondo il GRISOLIA(30), i saltuari dei privati facevano eseguire le utilizzazioni forestali, regolavano il pascolo, fissando ai « villici » il numero dei capi di bestiame che potevano condurre in ogni «saltus» ed erano infine incaricati della repressione dei reati. Nei boschi dello Stato e dell’imperatore, i saltuari dipendevano, come già accennato, dai «procuratores saltuum», che rispondevano della sorveglianza forestale(31).

Nelle prime pagine di questo elaborato, si è parlato della forza morale che Roma attingeva dal Diritto. La civiltà romana era una costruzione unitaria e continua, fondata su di un sistema di fini e di valori composti in armonia, e sorretta da uno sforzo omogeneo e consapevole. Allorché, alla fine del quarto secolo, la costruzione perdette il suo carattere unitario e l’etica, la politica, la religione si posero su piani diversi e distinti, ispirandosi a ideali non solo differenti, ma spesso antitetici, subentrarono oscuramenti di coscienze e crisi spirituali, incertezze e turbamenti, dubbi e stanchezze. L’edificio crollò perché il terreno su cui era stato costruito, aveva ormai perduto la sua solidità e mutato la sua composizione. Rimase però, a testimoniare nei secoli l’altezza raggiunta da questa civiltà, un poderoso e incancellabile monumento: il «Corpus juris romani» che ancor oggi è la base e la luce dottrinale del giure civile di tutto il mondo.

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(1) Cfr.: S. MUZZI: La poesia degli alberi e del bosco. «Notiziario Forestale »n. 8-9, 1950. 5. MUZZI: Tradizione della Festa degli Alberi. «L’Italia Forestale e Montana » n. 6, 1951.
(2) G.B. VICO: De antiquissftna italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda.
(3) Cfr.: R. TRIFONE: Storia del diritto forestale in Italia. 1957 e 5. MUZZI: Il 46’ anniversario di fondazione della Scuola Forestale di Città Ducale. “Notizia­rio Forestale» n. 6 straordinario. 1949.
(4) Successivamente venerato come dio della guerra.
(5) L’anno allora si iniziava con il mese a lui dedicato: Marzo.
(6) Dalla parola « lucus» deriva la denominazione di Luco ne’ Marsi, di Lucera, Lucito, Piediluco ecc., città sorte presso antichi « luci ».
(7) DI BERENGER: Trattato di selvicoltura. 1887.
(8) Sylvas ad usum navium publicavit. Cfr. Dionigi d’Alicarnasso, III 45.
(9) D. 1. 8 par. 1.
(10) BERENGER: Selvicoltura « ... il “nemus” e “saltus” dei Latini esprime­vano tanto selva che pascolo e tuttora in Sardegna chiamano Salto un pascolo libero e boschivo, a differenza della tanca con cui intendono una pastura nuda chiusa da muricciolo ».
(11) F. GRJSOLIA: Foreste e Boschi. (Dal Digesto Italiano).
(12) D.XXXIJJ: 7.12. «Labeone ritiene che Saltuario sia essenzialmente co­lui che è destinato a custodire i prodotti non già a vigilare i confini; ma Nerazio ritiene Saltuario anche costui; e nell’uso siamo in diritto di considerarli tutti Saltuarii ».
(13) DXXXII: 60. «Il Saltuario però (riteniamo) che è destinato più a con­servare e vigilare i fondi che a coltivarli ».
(14) DVII: 8-16. « Il padrone della proprietà anche contro il volere dell’usu­fruttuario o dell’utente può far vigilare il fondo o la casa per mezzo del Saltuario o del sovraintendente al fabbricato.
(15) DI BERENGER: Dell’antica storia e giurisprudenza forestale in Italia.
(16) M. Porcjus Cato Censorius: De re rustica, 59.
(17) PLINIO: N.H. lib. XVIII.
(18) Dl BERENGER: Dall’antica storia, ecc. - op. cit.
(19) DI BERENGER: Trattato di selvicoltura. 1887.
(20)SVETONIO: Jul Caes., 19 - «C. Julio Caesarj provinciam in consolatu (iatnm ad silvas et colles ».
(21) F. GRISO’.JA. Foreste e boschi (dal Digesto Italiano - 1897).
(22) SVETONIO: Octav. 37.
(23) D. 7. 8. 16.
(24) D.L. 42 de usu et usufr.
(25) D.L. 21 de usufr. et quem.
(26) D.L. 7 par. 7 de usufr. et quem.
(27) Plin. N.H. 18, 19.
(28) D.L. 236 - par. 1 - VIII - 5.
(29) Des Chesnes: La législation forestiére dans l’antiquité romaine.
(30) GRISOLIA F.: op. cit.
(31) Cod. L. 5, XI, 65 e L. 1, XI, 66.